A inizio anno, il 18 gennaio 2024, in occasione della mostra dell’Istituto nazionale di astrofisica Macchine del tempo a Palazzo Esposizioni Roma, Piero Boitani, filologo e saggista, Accademico dei Lincei, professore emerito di Letterature Comparate alla Sapienza, ha tenuto una conferenza pubblica su scienza e umanesimo: Vaghe stelle dell’Orsa: Leopardi tra astronomia e poesia, nel quale ha approfondito il tema della scienza come storia e mito, soprattutto in relazione al caso esemplare del poeta che conosciamo e amiamo.
L’autore ci ha concesso di pubblicare il testo integrale della lecture sul sito della rivista Universi e ha rilasciato questa intervista nel quale lo presenta ai lettori.
Dalla Storia della astronomia, iniziata quando il poeta aveva solo 13 anni, all’ultima grande canzone leopardiana La ginestra o il fiore del deserto, del 1836: è questo l’arco di una vita che lei racconta sapientemente, rintracciando le connessioni tra scienza e spirito. Secondo lei, qual è il momento della produzione letteraria del poeta in cui si apprezza meglio la connessione con il cielo e il cosmo, e in cui la profonda conoscenza scientifica di Leopardi si manifesta nella poesia; insomma, in cui le due culture – che all’epoca non erano poi tanto separate – si fondono meglio?
«Si potrebbe sostenere che il momento culminante della connessione tra poesia e scienza in Leopardi è l’ultimo, quello incarnato dalla La ginestra, perché in quella lirica i riferimenti alle teorie astronomiche del tempo paiono più precisi che altrove. Ma è un’impressione errata. Leopardi si è mantenuto al corrente dei progressi scientifici per tutta la sua (breve) vita. Quel che aveva appreso, lo aveva appreso sin dall’inizio: per esempio la distinzione epocale tra sistema aristotelico-tolemaico e quello di Copernico, Galileo, Keplero e Newton. Naturalmente, Leopardi parla sempre da poeta: sarebbe vano attendersi da lui formule algebriche o figure geometriche. Per lui, contano le immagini: l’infinito, l’indefinito, il vago, il remoto; la luna, le stelle, i «nodi quasi di stelle», cioè gli ammassi stellari, le galassie. Ma, appunto, li chiama «nodi quasi di stelle» e non “galassie”. L’attenzione al dato scientifico deve essere stata costante in lui, con atteggiamento che variava da quello prevalentemente filosofico (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia) a quello letterario-esistenziale (Le ricordanze). Certe volte, poi, si ha l’impressione che nelle Operette morali e nello Zibaldone l’attenzione sia più specificamente concentrata sulla scienza: quando mette in scena Copernico e il Sole, per esempio, l’ironia stessa pare dimostrare maggiore familiarità con la scienza: in una civiltà che ancora non conosce una divisione così netta tra le “due culture”. Kant è il maggior filosofo europeo dopo Tommaso d’Aquino, ma si occupa anche di ipotesi cosmologiche e della formazione delle nebulose. I poeti romantici di tutta Europa seguono con attenzione le scoperte scientifiche contemporanee. Per esempio, quando Keats menziona il «nuovo pianeta» che, scrive, «nuota nello sguardo» di chi scruta il cielo, provocando immenso stupore, si riferisce alla scoperta di Urano da parte di Herschel. Lui, come anche Shelley, possedeva libri di storia dell’astronomia scritti non da poeti, ma da storici, o divulgatori, della scienza».
Nel 2019 è uscito il suo Il grande racconto delle stelle (edito da il Mulino). Duecento anni dopo Leopardi, lei esplora quello che è stato raccontato sul cielo e l’universo dalla letteratura alla musica, passando per la pittura e la filosofia. Qual è l’influenza della scienza in queste opere?
«Quando ho scritto il Il grande racconto delle stelle sono partito dall’unità di “filosofia naturale” (cioè scienza), filosofia strettamente parlando e poesia (o arte in generale) in cui credevano gli antichi, per esempio Aristotele. Questa unità è venuta meno soltanto nella seconda metà dell’Ottocento, quando la scienza ha cominciato a usare matematica sempre più complicata e difficile da comprendere per un letterato. Poi, con il Novecento e la seconda rivoluzione scientifica, gli scrittori e gli artisti in generale hanno ripreso ad accostarsi alla scienza contemporanea: penso a Joyce, a Thomas Mann, a Hermann Broch, ma anche a due poeti più vicini a noi come il brasiliano Haroldo de Campos e il nicaraguense Ernesto Cardenal, oppure a Italo Calvino e Primo Levi. Non parliamo poi dei pittori e perfino dei musicisti, come appunto ho mostrato in quel libro. E poi, per dirla tutta, è sempre stato così. Omero descrive lo scudo d’Achille come il cosmo che la “scienza” del suo tempo conosceva. Lucrezio è poeta-scienziato tra i maggiori. Dante riversa nella Commedia tutta la scienza che ha appreso dall’Aristotele latino e dal Timeo latino di Calcidio. Senza conoscere quella scienza è impossibile conoscere a fondo Dante. Non è la scienza che manca ai poeti, è la poesia che manca agli scienziati. Ripeto: questo vale anche per i pittori e persino per i musicisti. Sempre: dalle miniature medievali ai quadri del Seicento o dell’Ottocento, dalla musica di Haydn a quella di Dallapiccola. Come potrebbe un artista ignorare la scienza se vuol rendere un’immagine del mondo che ha davanti e nel quale vive? Certo, ci sono sensibilità e conoscenze scientifiche differenti da artista ad artista. Nel migliore dei casi, un Leonardo sarà grandissimo pittore ma anche straordinario indagatore (e scrittore) dei fenomeni naturali».
Secondo lei, esiste ancora oggi un dialogo tra la scienza, la letteratura e le arti, e – se sì – qual è l’esempio che più l’ha colpita?
«Certo che esiste anche oggi! E in doppia direzione. Ho già citato il poeta brasiliano De Campos e quello nicaraguense Cardenal, che fanno poesia della scienza. Il pittore Anselm Kiefer, uno dei maggiori del nostro tempo, fa lo stesso. Ma c’è anche la scienza che introduce il concetto di bellezza all’interno del proprio discorso: gli esempi più eloquenti sono Paul Dirac, che diceva «it is more important to have beauty in one’s equations than to have them fit experiment», oppure il fisico indo-americano Subrahmanyan Chandrasekhar, autore di un libro intitolato Truth and Beauty. Aesthetics and Motivation in Science, o il nostro Bruno Bertotti. Alberto Magno, il maestro tedesco di Tommaso d’Aquino, diceva, nel Duecento: Poesis modum dat philosophandi sicut aliae scientiae logices: “la poesia dà modo di filosofare come le altre scienze della logica”. Non male, per un frate domenicano di otto secoli fa!».