Flash di Luglio

Flash di Luglio

Curiosità dallo spazio

Scoperti due nuovi minerali in un meteorite

Una fetta del meteorite di El Ali, ospitata nella collezione di meteoriti della University of Alberta, contiene due minerali mai visti prima sulla Terra. Crediti: Università dell’Alberta

In un meteorite di 15 tonnellate trovato nel settembre 2020 in Somalia, il nono più grande mai recuperato, un team di ricercatori ha scoperto almeno due nuovi minerali mai visti prima sulla Terra. I due minerali provengono da una fetta di 70 grammi che è stata inviata alla ‘University of Alberta per la classificazione, e sembra già esserci un potenziale terzo minerale in esame. Secondo Chris Herd, professore presso il Dipartimento di scienze della Terra e dell’atmosfera e curatore della collezione di meteoriti della ‘University of Alberta, se i ricercatori riuscissero a ottenere più campioni, potrebbe esserci la possibilità di trovarne altri. Intanto i due nuovi minerali sono stati chiamati elaliite ed elkinstantonite. Il primo prende il nome dal meteorite stesso – soprannominato meteorite “El Ali” perché rinvenuto nei pressi della città di El Ali, nella regione di Hiiraan in Somalia – mentre il secondo è stato chiamato così in onore di Lindy Elkins-Tanton, vicepresidente dell’Asu Interplanetary Initiative, professoressa alla School of Earth and Space Exploration dell’Arizona State University e principal investigator della missione Psyche della Nasa.


Due “Terre” potenzialmente abitabili a 16 anni luce

Un esopianeta transita di fronte al disco della sua stella ospite, nel rendering di un artista. Crediti: Esa/Atg medialab

Un team internazionale di ricercatori, tra cui alcuni dell’Istituto nazionale di astrofisica, ha scoperto la presenza di due pianeti di massa comparabile a quella della Terra in orbita attorno alla stella Gj 1002, una nana rossa distante 16 anni luce dal Sistema solare. Entrambi i pianeti orbitano all’interno della zona del sistema considerata potenzialmente abitabile, cioè a una distanza ideale dalla loro stella per mantenere in superficie acqua allo stato liquido. Condizione, quest’ultima, considerata fondamentale per ospitare forme di vita. Un anno su Gj 1002 b, il pianeta più interno, dura solo 10 giorni: tanto, infatti, il pianeta impiega per completare un’orbita attorno alla sua stella. Il secondo corpo celeste del sistema, Gj 1002 c, più distante, percorre interamente la sua orbita in 21 giorni. Questa scoperta è stata possibile grazie alle osservazioni combinate degli strumenti Espresso e Carmenes. La vicinanza della stella al nostro sistema solare rende entrambi i pianeti, Gj 1002 c in particolare, ottimi candidati per la caratterizzazione atmosferica attraverso lo studio della loro luce riflessa o dell’emissione termica.


Se gli alieni ci contattano, che si fa?

Un radiotelescopio a quota 5mila metri, presso l’Osservatorio di Llano de Chajnantor nel deserto di Atacama, Cile. Crediti: Eso/Clem & Adri Bacri-Normier

In caso di contatti del “terzo tipo” dobbiamo tenerci pronti. Per questo è nato il Seti Post-Detection Hub, un centro di ricerca internazionale che fungerà da hub di coordinamento per uno sforzo globale che riunisce diverse competenze, sia scientifiche sia umanistiche, per definire valutazioni d’impatto, protocolli, procedure e trattati per consentire una risposta responsabile a un eventuale contatto con forme di vita intelligente extraterrestri. Il Seti Post-Detection Hub colmerà una sostanziale lacuna politica e prenderà in considerazione anche una comunicazione scientifica responsabile nell’era dei social media. Il Seti Post-Detection Hub fornisce per la prima volta una “casa” permanente per coordinare lo sviluppo di un quadro completo, riunendo membri interessati del Seti e più ampie comunità accademiche, nonché esperti di politica, per lavorare su argomenti che vanno dalla decifrazione dei messaggi e analisi dei dati, allo sviluppo di protocolli normativi, diritto spaziale e strategie di impatto sociale.


Quel che serve per sopravvivere su Marte

Osservazione al microscopio di Debaryomyces hansenii.

Nonostante gli enormi sforzi della comunità scientifica, finora la ricerca di vita su Marte ha dato esito negativo. Ma se esistesse, probabilmente nella forma più semplice che riusciamo a immaginare, che tipo di sfide dovrebbe affrontare? Le condizioni ambientali sul Pianeta rosso sono a dir poco sfavorevoli. Non tanto per l’assenza di acqua, che potrebbe formarsi in piccole quantità da un processo noto come deliquescenza, quanto per la presenza di sali in grado di distruggere la struttura tridimensionale di Dna, Rna e proteine. Per capire quali adattamenti fisiologici siano necessari affinché un ipotetico microrganismo marziano possa sopravvivere a questi stress, un team di ricercatori guidato dalla Technische Universität Berlin ha studiato la risposta specifica a queste condizioni e i processi cellulari correlati in un organismo modello in grado di sopportare bene differenti concentrazioni saline: il lievito Debaryomyces hansenii. Il risultato? I ricercatori hanno scoperto che le risposte allo stress causato dai due sali condividono molte caratteristiche metaboliche comuni – ad esempio le stesse vie di segnalazione dello stress, l’aumento del metabolismo energetico e la formazione di composti in grado di regolare l’equilibrio salino all’interno delle cellule e mantenere il corretto volume cellulare. 

Partner e progetti dell’Inaf


Juice alla scoperta dei segreti di Giove e delle sue lune ghiacciate

L’ultima missione interplanetaria dell’Esa, Juice, prende il volo dallo spazioporto europeo in Guyana Francese. Crediti: Esa/M. Pédoussaut

Si chiama Juice (Jupiter Icy Moon Explorer) la missione dell’Esa selezionata dallo Space Programme Committee per esplorare Giove e le sue lune ghiacciate – Ganimede, Europa e Callisto. Dopo il rinvio di 24 ore causa maltempo, è partita con successo il 14 aprile alle 14:14 UTC(IT) dallo spazioporto di Kourou, nella Guyana Francese a bordo del lanciatore Ariane 5. La missione vede una forte partecipazione italiana attraverso l’Asi. Dopo un viaggio di circa otto anni, con i suoi 10 strumenti di bordo, quattro flyby planetari per raggiungere il gigante gassoso e 35 attorno alle sue lune, Juice effettuerà osservazioni dettagliate del pianeta e dei suoi tre grandi satelliti “Galileiani”, cercando di studiare quali sono le condizioni per la formazione dei pianeti, la comparsa della vita e il funzionamento del Sistema solare. Monitorerà anche il complesso ambiente magnetico, radiativo e plasmatico di Giove e la sua interazione con le lune. Gli strumenti a guida italiana sono il radar Rime, la camera Janus e lo strumento di radio scienza 3GM. A questi si aggiunge la forte partecipazione nello spettrometro Majis, guidato dall’Agenzia spaziale francese Cnes.


Missione Dart-LiciaCube: analisi di un successo della prima missione di difesa planetaria

L’asteroide Dimorphos, poco prima dell’impatto con la sonda Dart della Nasa, il 26 settembre 2022. Crediti: Nasa

Arrivano le prime pubblicazioni sui risultati scientifici dell’entusiasmante missione di difesa planetaria Nasa Dart-LiciaCube, che vede la collaborazione dell’Agenzia spaziale italiana con il coordinamento scientifico dell’Istituto nazionale di astrofisica. Lo scorso 26 settembre la sonda Dart (Double Asteroid Redirection Test) ha colpito con successo l’asteroide Dimorphos, satellite naturale dell’asteroide Didymos, modificandone la traiettoria. L’impatto è stato documentato dal cubesat dell’Asi, LiciaCube. I preziosi dati acquisiti dalla missione sono stati oggetto di studio da parte della comunità scientifica mondiale. Sulla rivista Nature sono stati pubblicati i primi cinque articoli sui risultati scientifici della missione, tre dei quali coinvolgono il team di LiciaCube composto da ricercatori di Asi, Inaf, Ifac-Cnr, Politecnico di Milano, Università di Bologna e Università Parthenope. Le immagini acquisite da LiciaCube confermano essere una sorgente di informazione unica per svelare la natura di corpi celesti di grande fascino e interesse come gli asteroidi.


Il progetto Ska è realtà

Le antenne Skala 4.1AL all’Osservatorio Radioastronomico di Murchison, nel deserto australiano. Crediti: Icrar

Dopo oltre 30 anni di ideazione, progettazione e test, il progetto Ska è ufficialmente una realtà. Nel mese di dicembre hanno avuto luogo, in Australia e in Sudafrica, le cerimonie ufficiali di inizio lavori per quello che sarà il radiotelescopio più importante al mondo. Durante le celebrazioni è stato dato anche l’annuncio dell’assegnazione di quattro grandi contratti del valore di oltre 300 milioni di euro. I gruppi di antenne denominati Ska-Low e Ska-Mid costituiranno le due reti di radiotelescopi più grandi e complesse mai costruite. Promosso dall’Osservatorio Ska (Skao), questo radiotelescopio è considerato da molti uno degli sforzi scientifici globali più ambiziosi del 21° secolo, coinvolgendo 16 Paesi in cinque continenti. L’Italia vanta una lunga tradizione nel campo della radioastronomia e tramite l’Inaf è una delle prime nazioni ad aver preso parte al progetto. Tutta la comunità scientifica italiana godrà di un coinvolgimento trasversale in Ska. I quattro contratti annunciati riguardano la costruzione delle infrastrutture in Australia e in Sudafrica (200 milioni di euro) e la produzione delle antenne a media e bassa frequenza (100 milioni di euro). Il totale dei contratti assegnati finora supera i 450 milioni di euro.


Lofar fotografa il bagliore radio di Abell 2255

L’immagine composita dell’ammasso di galassie Abell 2255 misura circa 18 milioni per 18 milioni di anni luce. Crediti: Rosat/Lofar/Sdss/Botteon et al., Frits Sweijen

Sfruttando la potenza del radiotelescopio europeo Low Frequency Array (Lofar), la più estesa rete al mondo attualmente operativa per osservazioni radioastronomiche a bassa frequenza, un team europeo di astronomi in Italia, Olanda e Germania ha osservato l’enorme emissione di onde radio diffusa intorno all’ammasso di galassie Abell 2255. Per 18 notti, le sensibili antenne Lofar hanno “ascoltato” un’area di cielo delle dimensioni apparenti di quattro lune piene, distante circa un miliardo di anni luce dalla Terra (in direzione della costellazione del Dragone). Per la prima volta gli astronomi hanno studiato un ammasso di galassie con osservazioni così profonde. Gli astrofisici, coordinati da Andrea Botteon dell’Osservatorio di Leida, nei Paesi Bassi, recentemente trasferito al Dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna in qualità di assegnista di ricerca e associato presso l’Inaf di Bologna, hanno pubblicato i dati delle loro osservazioni sulla rivista Science Advances. Le immagini ottenute dal gruppo di ricerca sono 25 volte più nitide e hanno un rumore 60 volte inferiore rispetto ai dati ottenuti in passato con altri strumenti. I risultati sono stati pubblicati su Science Advances


Con Pegasus la mappa dell’1 per cento del piano galattico

Una grande porzione del disco della nostra Galassia, di circa 6-7 gradi pari a 12-14 lune piene in lunghezza. Crediti: R. Kothes (Nrc), E. Carretti (Inaf), i gruppi Pegasus, Emu, e Possum

Di recente sono state portate a termine le osservazioni radio di una vasta sezione del piano galattico della Via Lattea (circa l’1%) con i radiotelescopi Askap e Parkes (Murriyang), entrambi sviluppati e gestiti dall’agenzia scientifica australiana Csiro. Alcuni radioastronomi dell’Inaf hanno coordinato il gruppo internazionale di ricerca che ha utilizzato il grande disco di Parkes per “fotografare” una porzione del disco della nostra galassia, nell’ambito del progetto di ricerca Pegasus (Possum Emu Gmims All Sky Uwl Survey), uno dei numerosi progetti di esplorazione del più ampio programma Emu, che consiste nell’osservazione di tutto l’emisfero sud con Askap, uno dei precursori del progetto Ska. L’immagine è stata unita a quella realizzata con le antenne Askap, ottenendo un risultato di straordinaria qualità. L’immagine, ampia 12-14 volte il diametro apparente della Luna, mostra una regione caratterizzata da un’emissione estesa associata all’idrogeno gassoso che riempie lo spazio tra le stelle; stelle alla fine del loro ciclo evolutivo chiamate resti di supernova e bolle calde di idrogeno gassoso ionizzato legate alla nascita di nuove stelle.  Questa nuova fotografia della nostra galassia mostra aspetti dell’evoluzione delle stelle visibili solo ai radiotelescopi.

Grandi scoperte recenti


Come muore un pianeta? Ecco la fine di un mondo

Rappresentazione artistica di un pianeta mentre sfiora la superficie della stella che sta per inghiottirlo. Crediti: K. Miller/R. Hurt (Caltech/Ipac)

In uno studio pubblicato su Nature, un team di ricercatori ha riportato di aver colto sul fatto per la prima volta in assoluto – a 12mila anni luce da noi, nella costellazione dell’Aquila – il momento esatto in cui una stella morente, espandendosi, ha inghiottito un pianeta simile a Giove. Verso la fine della sua vita, il Sole si espanderà rapidamente fino a diventare una gigante rossa, inglobando tutti i pianeti interni del Sistema solare, compresa la Terra. Questo macabro spettacolo non deve tuttavia preoccuparci: esso avrà luogo quando la nostra stella avrà terminato il suo combustibile nucleare, l’idrogeno, tra circa cinque miliardi di anni. E questo è proprio il modo in cui molte stelle si avviano verso il termine della propria vita. Fino a oggi, gli astronomi erano stati in grado di osservare i momenti appena precedenti, quando i pianeti orbitano molto vicino alla loro stella, e quelli successivi, quando la stella ha ormai raggiunto dimensioni considerevoli, inghiottendo ogni cosa nelle vicinanze, compresi i pianeti. Lo studio descrive il tragico evento: la stella in questione ha aumentato la sua luminosità di circa cento volte in pochi giorni. A seguire, il lampo dell’esplosione è stato accompagnato da un segnale infrarosso più freddo e duraturo.


Il protoammasso più giovane l’ha trovato il telescopio James Webb

Il James Webb Space Telescope durante un test del centro di curvatura al Goddard Space Flight Center nel Maryland, nel 2018. Crediti: Nasa/Chris Gunn

Ogni gigante è stato un tempo un bambino, ma riuscire a immaginarlo senza averlo mai visto può essere difficile. Un esercizio che hanno dovuto fare per anni gli astronomi, dovendo ricostruire come si sono formate le strutture cosmiche più grandi, come gli ammassi di galassie, senza poterne vedere direttamente i progenitori. Fino a oggi. Grazie al telescopio spaziale James Webb di Nasa ed Esa, e grazie all’aiuto della lente gravitazionale di un ammasso di galassie vicino, l’inaccessibile è diventato accessibile. In un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal Letters arriva la conferma dell’osservazione del protoammasso più giovane e più lontano di sempre, risalente a un’epoca in cui la formazione e l’assemblaggio delle galassie era cominciato da poco. Redshift 7.9, o 650 milioni di anni dopo il big bang: a tanto si è spinto lo specchio dorato di Webb. In quel momento cominciava a formarsi questa struttura destinata – secondo i calcoli – a diventare un enorme ammasso di galassie. Grazie alle osservazioni di spettroscopia infrarossa di Webb, un gruppo di astronomi, fra cui alcuni dell’Inaf, ha confermato che si possono contare almeno sette galassie legate gravitazionalmente all’interno del protoammasso, e molte altre sono destinate a finirci dentro.


BepiColombo osserva la magnetosfera di Mercurio

BepiColombo vola su Mercurio nel rendering di un artista. Crediti: Esa/Jaxa

BepiColombo ha fatto centro. Un team di ricercatori guidati dall’Inaf riporta, in un articolo pubblicato su Nature Communications, le prime osservazioni della magnetosfera di Mercurio effettuate con l’esperimento Serena (Search for Exosphere Refilling and Emitted Neutral Abundances), montato a bordo della missione Esa-Jaxa per lo studio di Mercurio. La suite di strumenti Serena, a guida Inaf, ha effettuato misure senza precedenti di particelle sia solari sia planetarie con due dei suoi quattro strumenti, Picam e Mipa, già operativi. Gli altri due strumenti, Strofio ed Elena, inizieranno a lavorare dopo la messa in orbita. Il tutto con il supporto dell’Agenzia spaziale italiana. I ricercatori hanno catturato gli spettrogrammi in energia delle particelle misurate sia fuori sia dentro la magnetosfera di Mercurio. I dati descritti nello studio fanno riferimento al primo volo ravvicinato della sonda attorno a Mercurio, nell’ottobre 2021. L’arrivo della missione su Mercurio è previsto nel 2025. Dopo i cinque voli ravvicinati già effettuati (attorno alla Terra e a Venere nel 2020, un secondo in prossimità di Venere e i primi due di Mercurio nel 2021 e nel 2022), saranno necessari altri quattro flyby del pianeta più vicino al Sole prima di poter inserire nella sua orbita le due sonde che compongono la missione: l’Mpo dell’Agenzia spaziale europea (Esa) e il Mercury Magnetospheric Orbiter (Mmo) dell’Agenzia spaziale giapponese (Jaxa).


Ixpe svela i misteri di una storica supernova

Immagine composita del resto di supernova Tycho con riprese dei raggi X delle missioni Ixpe e Chandra e nel visibile del progetto Nasa Digital Sky Survey.

In uno studio pubblicato su The Astrophysical Journal, un team di astronomi guidato da Riccardo Ferrazzoli dell’Istituto nazionale di astrofisica ha usato il telescopio spaziale X-ray Polarimetry Explorer (Ixpe) per studiare i raggi X polarizzati emessi dal resto della supernova Tycho vista esplodere in direzione della costellazione di Cassiopea più di 450 anni fa scoprendo nuove informazioni sulla geometria dei suoi campi magnetici. È una missione da record quella dell’osservatorio spaziale Ixpe, nata dalla collaborazione tra la Nasa e l’Agenzia spaziale italiana (Asi). La sonda sta sfornando nuove immagini che sono una fonte inesauribile di preziosi dati per i ricercatori di tutto il mondo. Infatti è stato proprio un team internazionale di scienziati che ha scoperto nuove informazioni sui resti di una stella esplosa nel 1572. I risultati hanno fornito nuovi indizi sulle condizioni fisiche presenti nelle onde d’urto create in queste titaniche esplosioni stellari chiamate supernove. Lanciata nello spazio il 9 dicembre 2021, Ixpe è una missione interamente dedicata allo studio dell’universo attraverso la misura della polarizzazione dei raggi X. Utilizza tre telescopi installati a bordo con rivelatori finanziati dall’Asi e sviluppati da un team di scienziati dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e dell’Inaf, con il supporto industriale di Ohb-Italia.


Ecco il buco nero più vicino alla Terra

Rappresentazione artistica di un sistema binario formato da una stella simile al Sole e un buco nero di massa stellare quiescente.

La contesissima corsa alla scoperta del buco nero più vicino alla Terra ha un nuovo primatista: un oggetto di massa stellare che orbita attorno a una stella simile al Sole. Una scoperta priva di ambiguità – per caratteristiche orbitali osservate e derivate – asseriscono gli autori di un articolo uscito sul Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Il buco nero in questione si chiama Gaia BH1 e fa parte di un sistema doppio che è stato inizialmente osservato con il telescopio spaziale Gaia, in seguito riosservato con il telescopio Gemini North alle Hawaii. Questo buco nero quiescente è circa 10 volte più massiccio del Sole e si trova a 1600 anni luce di distanza nella costellazione dell’Ofiuco. Il buco nero sarebbe tre volte più vicino alla Terra del precedente detentore del record, una binaria a raggi X nella costellazione di Monoceros. A differenza di Gaia BH1 però, quest’ultimo fa parte della categoria dei buchi neri stellari “attivi”, gli unici di massa stellare confermati finora, più semplici da scoprire perché emettono radiazione energetica nei raggi X mentre consumano materiale dalla stella compagna.


Saturno e le sue lune: raggiunta quota 145

La sonda Cassini fotografa Saturno e i suoi anelli principali, a colori naturali come visti dall’occhio umano. Crediti: NASA/JPL-Caltech/SSI/Cornell

Saturno torna al primo posto nel Sistema solare per numero di satelliti naturali in orbita: sono state identificate attorno al sesto pianeta 62 nuove lune, che portano il numero totale a 145, sorpassando così Giove, fermo a quota 95. La scoperta è stata annunciata dal gruppo internazionale guidato dall’Istituto di astronomia e astrofisica dell’Accademia Sinica di Taiwan e getta luce sul passato di questo pianeta: il nuovo gruppo di lune è probabilmente nato da collisioni tra satelliti avvenute nel recente passato, circa cento milioni di anni fa. Lo studio dimostra anche l’efficacia della tecnica utilizzata, che ha permesso di individuare corpi di soli 2,5 chilometri di diametro. Localizzare satelliti intorno a Giove e Saturno è però molto impegnativo: viste le loro dimensioni, superano in luminosità qualsiasi cosa si trovi intorno. Inoltre, per confermare la presenza di una luna non basta semplicemente individuarla accanto al suo pianeta: l’oggetto deve essere tracciato, idealmente per diverse orbite, in modo che il suo percorso possa essere analizzato per determinare se è stabile.


Un premio importante

Alla Collaborazione Gaia il premio Berkeley 2023

Il satellite europeo Gaia nel rendering di un artista. Crediti: Esa/D. Ducros

Il team alla guida del satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea è stato insignito del premio Lancelot M. Berkeley 2023. Il riconoscimento, per meriti nell’ambito astrofisico, viene conferito annualmente, dal 2011, dall’American Astronomical Society ed è sostenuto da una sovvenzione del New York Community Trust. La collaborazione Gaia è onorata con il premio Berkeley 2023 per aver reso possibile la creazione della più rivoluzionaria, precisa e completa mappa multidimensionale della Via Lattea. Dal suo lancio nel 2013, il telescopio spaziale Gaia ha rilevato posizioni stellari, distanze, colori e moti propri di quasi due miliardi di stelle nella nostra galassia. Sulla motivazione del premio si legge che «le tre data release di Gaia saranno a lungo considerate eventi importanti nella storia dell’astronomia, per aver permesso la creazione di una partnership globale al fine di comprendere meglio l’origine, la struttura e il destino della nostra galassia». Il team di Gaia viene premiato, in particolare, per un articolo pubblicato su Astronomy & Astrophysics nel maggio 2021 che descrive i primi dati contenuti nel più recente catalogo di dati della missione Gaia.