L’eccellenza artigiana della scienza

L’eccellenza artigiana della scienza

Filippo Zerbi, Direttore Scientifico dell’Inaf

Il Pnrr, i progressi nel campo della ricerca, la mobilità di ricercatori di tutto il mondo: l’Inaf vive e affronta cambiamenti interni ed esterni anche grazie alla reputazione acquisita a livello internazionale. Un ruolo che richiede riflessioni e confronti con altri Paesi. Universi ha parlato di tutto questo con Filippo Zerbi, il Direttore scientifico dell’Istituto. 

Com’è cambiato l’Inaf negli ultimi anni?

Credo che sia evidente a tutti che negli ultimi anni l’Inaf ha compiuto un salto quantico rispetto alla propria posizione internazionale, dovuto soprattutto alla partecipazione a grandi progetti e a grandi collaborazioni per la costruzione di infrastrutture da terra, nelle quali prima eravamo abbastanza carenti, mentre ora siamo protagonisti, in alcuni casi anche protagonisti di primo piano. Ed è una posizione che dovrebbe venire ulteriormente valorizzata dal Pnrr, che ci consentirà di fare un altro salto in termini di partecipazione a queste infrastrutture, che sono riconosciute a livello internazionale come infrastrutture di punta per la ricerca astrofisica nel mondo.

Ecco, il Pnrr: qual è il coinvolgimento dell’Inaf?

L’Inaf ha inoltrato quattro proposte come prime, in risposta alla missione 4 del Mur, tutte risultate selezionate: Cta+, per il potenziamento di Cta; Stiles, per il potenziamento delle infrastrutture relative a Ska ed Elt; una per il rifacimento della Croce del Nord, sia per il follow-up degli space debris sia per i Fast Radio Burst; e infine una con l’Asi per un progetto di potenziamento di laboratori spaziali. Siamo poi coinvolti nel Centro Nazionale Hpc e partecipiamo a KM3NET e all’Einstein Telescope, dei quali è prime l’Infn.

Come sta andando? Stiamo riuscendo a tenere il passo con gli impegni richiesti? 

«Sono molto preoccupato per il fatto che il salto di scala dei finanziamenti e i vincoli temporali di spesa – che sono ovviamente pre-guerra, quindi potranno essere rivisti, ma al momento ci sono – rappresentano una sfida, non soltanto per l’Inaf ma per qualunque ente di ricerca, in termini soprattutto di velocità nel procurement. E infatti tutti gli enti di ricerca con i quali ci interfacciamo sono altrettanto preoccupati, perché al momento non c’è alcuna deroga rispetto alle regole degli appalti pubblici. Così ci ritroviamo a dover spendere cifre nell’ordine di qualche centinaia di milioni di euro entro trenta mesi, un compito non banale per la pubblica amministrazione. Insomma, stiamo correndo con le mani legate dietro la schiena. Ciò detto, sono certo che ce la faremo, ma dal punto di vista amministrativo è una vera sfida. 

Parliamo ora di persone. Le statistiche annuali dei grant ERC mostrano con una chiarezza spietata quanto l’Italia della scienza sia incapace di attrarre ricercatori dall’estero…

Anzitutto va detto che l’incapacità di attrarre dell’Italia non ha nulla a che fare con le statistiche degli ERC: l’Italia non è un paese attraente perché gestisce ancora la ricerca nel contesto del pubblico impiego. Ciò significa che le posizioni e gli avanzamenti di carriera, da noi, sono sostanzialmente vincolati al meccanismo pubblico, cosa della quale il resto d’Europa, gli Stati Uniti e altri paesi si sono parzialmente o completamente liberati. Non c’è dunque da stupirsi se per un ricercatore che venga dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania o dagli Stati Uniti questo sistema ingessato di assumere e retribuire le persone non sembri particolarmente attrattivo: le possibilità di carriera che trova in altri paesi sono molto più agili, scattanti e remunerate.

Una situazione che tocca anche l’Inaf, dunque.

Certo, per l’Inaf questo problema è centrale. E ha intrapreso azioni al riguardo – a livello legislativo, di ministero, di Consulta dei presidenti degli enti pubblici di ricerca (Conper) –, sottolineando come questa situazione renda gli enti di ricerca italiani non competitivi rispetto, in primo luogo, alle università italiane – che godono di una maggiore autonomia, potendo per esempio proporre posizioni più avanzate a chi rientra dall’estero – e, in secondo luogo, agli enti di ricerca stranieri. È una situazione che va affrontata a livello legislativo, riconoscendo che è ora che la ricerca esca dalla pubblica amministrazione.

Nell’attesa, azioni come il programma di fellowships AstroFit non possono essere d’aiuto?

No, perché il problema non è far venire persone dall’estero, quelle ci sono: vengono da noi e restano due o tre anni. Sapendo che all’Inaf ci sono competenze particolari, magari, le vengono a imparare, ad assorbire. Il problema è che queste persone poi non si stabilizzano, non restano qui. Ricercatori con passaporto straniero ci sono, all’Inaf, intendiamoci, ma si contano su un paio di mani, anche considerando l’enorme numero di stabilizzazioni che abbiamo completato negli anni passati: abbiamo due persone francesi, tre o quattro spagnoli, un americano, una cinese, un’olandese e poco più.

Asi, Cnr, Infn… tutti si stanno dedicando un po’ all’astrofisica. Al sistema paese serve un ente dedicato allo studio del cosmo?

L’Inaf Istituto di astrofisica e planetologia spaziali di Roma è dotato di una serie di macchine utensili per lavorazioni meccaniche di alta qualità. Crediti: INAF/V. Muscella

Be’, c’è una discussione culturale interminabile, su questo. Ci sono sostenitori e detrattori, chiaramente quasi sempre tutti interessati. Se guardiamo all’estero, la maggior parte delle istituzioni sono costituite in dipartimenti. Il Cnrs, in Francia, ha un dipartimento che è l’Insu (National Institute for Earth Sciences and Astronomy) ben diverso dall’IN2P3 (National Institute of Nuclear and Particle Physics), quindi “particellari” e astrofisici, pur collaborando, sono ben distinti benché condividano un’unica amministrazione centrale. Stessa cosa per gli istituti del Max Planck in Germania. In quasi tutto il mondo c’è una distinzione fra i due ambiti. Quella italiana non è dunque un’anomalia. Certo, va detto che noi abbiamo un modo di lavorare un po’ particolare e che spesso soffre di un fatto: si tendono a forzare della practices che vengono da alcuni considerate “best” dentro al lavoro degli altri, ma che di fatto non lo sono per tutti e che in certi casi potrebbero portare a un tragico tonfo di produttività.

Perché?

Perché noi siamo degli “artigiani”, mentre invece, per ragioni storiche, altri hanno dinamiche più “industriali”. La maggior parte dei nostri successi è dovuta a piccoli gruppi con buone idee, mentre la maggior parte dei successi altrettanto legittimi in altre realtà della ricerca italiana è opera di grandi collaborazioni che hanno cominciato negli anni Cinquanta e Sessanta a costruire grandi infrastrutture di ricerca internazionali, per cui serviva molto manpower coordinato. Nella nostra storia ci sono invece tante eccellenze individuali che hanno fondato delle scuole. Nel meccanismo attuale della Vqr (Valutazione della qualità della ricerca) non c’è però spazio per le eccellenze: si cerca la mediana alta. Detto altrimenti, il mobile della Brianza non te lo fa l’Ikea, ma è inevitabile che se fai una valutazione di massa l’Ikea prenda molti più punti del mobiliere della Brianza.