Dopo le visioni romantiche e intimiste dell’Ottocento, nei primi anni del ventesimo secolo, il cielo non si osserva soltanto con i telescopi, ma entra nelle sale da concerto e nei primi cinema. Compositori e registi trasformano pianeti, stelle e galassie in musica, immagini e colonne sonore, aprendo un dialogo inedito tra arte e scienza destinato a ispirare generazioni.
Se nel Romanticismo l’universo era cantato come emozione interiore e mistero poetico, nel primo Novecento la musica trovò nel cosmo ancora un territorio inesauribile di suggestioni. L’inizio del ventesimo secolo è un’epoca in cui la scienza ha rivoluzionato le nostre prospettive con telescopi sempre più potenti, la comprensione più profonda delle stelle e delle galassie, la scoperta di Plutone nel 1930, le teorie di Einstein che curvano lo spazio e il tempo. I compositori, immersi in questo clima di meraviglia e vertigine, iniziarono a dare voce all’universo con linguaggi nuovi e spesso visionari.
Punto di partenza imprescindibile è Gustav Holst che, in due anni, scrisse i sette pezzi che compongono la suite orchestrale per due pianoforti The Planets (1914-1916). Ogni movimento della composizione rappresenta un pianeta del Sistema solare (esclusa la Terra), non in senso astronomico o scientifico ma mitologico e simbolico, evocando emozioni profonde: Marte, il portatore di guerra è un brano percussivo e minaccioso, Venere, il portatore della pace è dolce e lirico. Nell’opera, Plutone è assente, perché non ancora scoperto, e Nettuno viene destinato all’organo, strumento che Holst ritiene più adatto a descrivere il mondo lontano e misterioso di quel pianeta. L’opera, pur ancorata al linguaggio tonale, apre la strada a un modo nuovo di pensare il rapporto tra musica e spazio, in un viaggio sonoro che anticipa, in modo sorprendente, l’immaginario della fantascienza e persino certe atmosfere delle colonne sonore hollywoodiane. Non a caso, il brano su Marte ha influenzato John Williams per la scrittura della musica di Star Wars.
La meraviglia per il cosmo si tradusse anche nella ricerca di nuove forme musicali. Alexander Scriabin, con il suo incompiuto Mysterium, immaginò un’opera totale e mistica da rappresentare ai piedi dell’Himalaya, destinata a coinvolgere suoni, luci e persino profumi per evocare la nascita di un nuovo universo.
Il cinema, che proprio in quegli anni muoveva i primi passi, non rimase indifferente. Nel 1902, Georges Méliès stupì il pubblico con Le Voyage dans la Lune, film muto in cui la musica – eseguita dal vivo in sala – trasformava le immagini in esperienza collettiva. Poco dopo, nel 1925, La moglie dell’astronomo di Ol’ga Preobraženskaja e Ivan Pravov portava lo spazio dentro una narrazione intima, mentre nel 1929 Una donna nella Luna di Fritz Lang, con musiche di Huppertz − lo stesso compositore della colonna sonora di Metropolis − offriva un realismo sorprendente nella descrizione di un viaggio sulla Luna, anticipando la fantascienza moderna.
In parallelo, la musica colta esplorava orizzonti inediti. Arnold Schönberg, con il suo Erwartung (1909) e la rivoluzione della dodecafonia, non scrisse direttamente delll’universo, ma sembrò evocare paesaggi sonori dissonanti tanto alieni quanto un cielo stellato.
Anche la musica leggera e popolare trovava eco nel cielo: dagli anni Trenta in poi proliferarono canzoni che sognavano la Luna, come Blue Moon (1934) di Richard Rogers, riflesso di un immaginario che portò il nostro satellite nelle radio e nei salotti di tutto il mondo. Il brano fu riproposto da numerosissimi artisti tra cui Ella Fitzgerald, Frank Sinatra, Elvis Presley, Rod Stewart e Mina, entrando a pieno titolo nel repertorio jazz dell’epoca.

Sul set del film Una donna nella Luna di Fritz Lang (1929) con l’attrice Gerda Maurus pronta a girare la scena finale circondata da attrezzisti e troupe, immersa nella scenografia lunare. Crediti: Bundesarchiv
