Gas freddo nell’universo primordiale

Gas freddo nell’universo primordiale

(di Chiara Feruglio e Luca Zappacosta)

Il fascino che l’essere umano prova per i quasar non è solo un ottimo tema per film di fantascienza, ma è il motore che stimola la continua indagine su questi fenomeni rarissimi. E che oggi sta portando lo studio della nostra storia cosmica a un nuovo livello.

NERO, MA LUMINOSO
Illustrazione di una galassia con un quasar brillante al centro. Crediti: Nasa/Esa/J. Olmsted (STScI)

Quando esploriamo l’universo primordiale, nel primo miliardo di anni dall’inizio del tempo cosmico (corrispondente a un redshift superiore a 6), ci rendiamo conto che le sorgenti cosmiche più luminose sono i quasar. Questi fenomeni cosmici traggono la loro straordinaria energia dall’accumulo di materia che si riversa da un disco di accrescimento su un buco nero supermassiccio situato al centro del sistema. Questo processo rilascia una quantità enorme di energia, osservabile come una luminosità eccezionalmente elevata di tali sorgenti. Analogamente, nella nostra stessa galassia, la Via Lattea, esiste un simile buco nero, recentemente oggetto di studi approfonditi da parte del team Eht (Event Horizon Telescope), che ha prodotto la famosa immagine-ombra del buco nero, divenuta virale sui media. I quasar dell’universo primordiale funzionano in modo analogo, ma hanno una massa notevolmente superiore – dell’ordine di un miliardo di masse solari, circa 1000 volte quella del nostro “piccolo” buco nero domestico – e risultano quindi molto più luminosi: possiamo considerarli tra gli oggetti più violenti ed energetici dell’universo.

Raro come un quasar

Fino ad ora, sono stati individuati circa 300 quasar risalenti all’epoca primordiale dell’universo nell’intero cielo. Potrebbero sembrare tantissimi, ma va sottolineato che, considerando il totale delle galassie conosciute, si tratta in realtà di un numero molto esiguo. Ciò suggerisce che la formazione e l’attivazione dei quasar sono eventi rari e probabilmente dipendono da circostanze cosmiche molto specifiche. Retrocedendo ancor di più nel tempo, per esempio ai primi 700 milioni di anni dopo il big bang, la rarità dei quasar diventa ancora più evidente. In questo periodo così primordiale, fino a oggi ne sono stati individuati solo sette esemplari. Questo dato sorprendente mette in luce la straordinaria rarità di questi oggetti luminosi durante le prime fasi dell’evoluzione cosmica.

Fascino intramontabile

NELL’OCCHIO DI WEBB
I quattro strumenti a bordo del James Webb Space Telescope studieranno i tre quasar più distanti finora scoperti, fra cui Pōniuāʻena. Crediti: Nasa/Esa/J. Olmsted (STScI)

Uno dei quesiti più intriganti per gli astrofisici riguarda i primi quasar: com’è possibile che oggetti così massicci, racchiusi in un volume estremamente compatto, si siano formati in soli 700 milioni di anni dopo il big bang? Questo interrogativo suscita un grande interesse così come la loro natura “esotica”, che da sempre affascina e ha ispirato l’immaginario collettivo, come spesso ritratto nei libri e film di fantascienza. Un esempio eloquente di questo affascinante mistero è stato presentato da Interstellar di Christopher Nolan. Nel film, il protagonista viaggia attraverso il cosmo alla ricerca di un nuovo pianeta abitabile per l’umanità, e durante il suo viaggio si imbatte in un buco nero supermassiccio chiamato Gargantua. La rappresentazione di Gargantua, sebbene sia una creazione cinematografica, ha contribuito a stimolare l’immaginazione del pubblico e a suscitare interesse per i fenomeni astrofisici più estremi.

I quasar primordiali, pur essendo fenomeni reali, evocano un senso di meraviglia e curiosità simile. La loro esistenza sfida la nostra comprensione ci spinge a indagare più a fondo sulla natura dei buchi neri, sulla formazione delle galassie e sulle condizioni primordiali dell’universo. Oltre al loro fascino intrinseco, i quasar primordiali hanno un’importanza fondamentale nell’ambito astrofisico e giocano un ruolo cruciale in molteplici processi cosmici: intorno e insieme a loro si sviluppano le galassie più massicce che osserviamo, caratterizzate da enormi serbatoi di gas freddo e polvere e processi di formazione stellare intensissimi. Tuttavia, la questione su come si formino e quale impatto abbiano sull’evoluzione galattica sfida ancora i modelli teorici più sofisticati, non trovando ancora una risposta definitiva. La relazione tra un buco nero supermassiccio e la galassia che lo ospita è un tema di grande interesse: in che modo si influenzano reciprocamente? Qual è l’impatto esatto di questi buchi neri sulle prime fasi di evoluzione delle galassie? Queste domande costituiscono uno dei più grandi enigmi dell’astrofisica moderna e richiedono un approccio multidisciplinare e innovativo per essere comprese appieno.

Pōniuāʻena

IL QUASAR HAWAIANO
Illustrazione della formazione del quasar Pōniuāʻena, a partire da un mostruoso buco nero, 100 milioni di anni dopo il big bang. Crediti: International Gemini Observatory/ NoirLab/ Nsf/ Aura/ P. Marenfeld

Per affrontare concretamente queste affascinanti domande, un team internazionale, sotto la guida dei ricercatori dell’Inaf, si è dedicato a un’indagine dettagliata sulle proprietà di questi oggetti. Per ottenere una visione più chiara, il team ha focalizzato la propria attenzione su uno dei tre quasar più luminosi e distanti mai osservati, Pōniuāʻena, che in lingua hawaiiana evoca “l’invisibile fonte volteggiante della creazione, circondata di brillantezza”. La luce di questa sorgente luminosa ha iniziato il suo viaggio attraverso il cosmo circa tredici miliardi di anni fa, durante l’epoca della Reionizzazione. Quest’epoca segna una svolta cruciale della storia cosmica: l’universo, precedentemente opaco, diventa gradualmente trasparente alla radiazione emessa da stelle e galassie. È grazie a questo processo che la luce prodotta dai corpi celesti può finalmente viaggiare attraverso lo spazio per arrivare oggi fino a noi. 

I quasar come Pōniuāʻena sono emersi straordinariamente presto nella cronologia cosmica. Sono testimoni dell’ambiente estremo in cui si trovano, caratterizzato dall’accumulo eccezionale di gas e polveri. Tuttavia, le ragioni di questa precoce apparizione rimangono avvolte nel mistero, costituendo uno dei più grandi enigmi della moderna astrofisica extragalattica. Esplorare le profondità di Pōniuāʻena e della sua galassia non solo ci consente di scrutare indietro nel tempo, ma ci sfida anche a comprendere meglio la natura stessa dell’universo e i suoi intricati segreti. Pōniuāʻena, che cattura l’immaginazione con la sua grandezza e mistero, è alimentato da un buco nero la cui massa, equivalente a un miliardo e mezzo di soli, lascia sbalorditi, e che potrebbe risalire a una densa concentrazione primordiale di massa oppure alla rapida accumulazione di gas su massa più piccola attraverso fasi di accrescimento estremamente veloci. Immerso nelle profondità del cosmo, questo colosso è ospitato al centro di una galassia che risale alla metà dell’epoca della Reionizzazione.

I rilevamenti di Noema

NOEMA
Il Northern Extended Millimeter Array sull’altopiano di Bure, a cavallo dei dipartimenti francesi delle Alte Alpi, dell’Isère e della Drôme. Crediti: Iram-gre

Attraverso l’impiego del sofisticato Northern Extended Millimeter Array (Noema), un radiotelescopio all’avanguardia che si trova su un altipiano delle Alpi francesi a 2700 metri di quota, il team di ricercatori ha diretto il suo sguardo verso il misterioso quasar Pōniuāʻena. Ciò che hanno scoperto è stato una traccia di gas molecolare freddo, rappresentato nel suo spettro dal monossido di carbonio, che permea la galassia ospite. Sono state rilevate ben due righe di emissione del monossido di carbonio (CO) estremamente brillanti, che indicano la presenza di un’enorme riserva di gas freddo e denso, idrogeno in forma molecolare (H2). Questo rilevamento segna un record senza precedenti nello studio di questi oggetti: mai prima d’ora era stato osservato gas molecolare freddo così precocemente nell’evoluzione cosmica. I dettagli di questa scoperta sono stati pubblicati sulle pagine della rivista scientifica The Astrophysical Journal Letters, gettando nuova luce sui processi che animano il cuore di Pōniuāʻena e aprendo intriganti interrogativi sulla formazione e l’evoluzione delle galassie primordiali. L’idrogeno molecolare H2, infatti, riveste un ruolo cruciale nell’astronomia e in particolare nel cosiddetto ciclo dei barioni, o ciclo del gas, fenomeno complesso e vitale per l’evoluzione delle galassie. Esso inizia con il gas intergalattico, che è gas primordiale tenue ma anche residuo di precedenti supernove o outflow galattici, che si accumula sulla galassia stessa; questo processo di accrescimento avviene grazie alla forza di gravità, che attrae il gas verso la galassia. Mentre accresce sulla galassia, parte di questo gas inizia a raffreddarsi. Questo fenomeno, detto cooling, è cruciale, perché consente al gas di raggiungere temperature e densità che favoriscono la formazione di molecole, in particolare di idrogeno molecolare. Il H2 è il mattoncino fondamentale per la formazione stellare, poiché costituisce le nubi giganti di gas dalle quali nascono le stelle. Il processo di formazione stellare è il cuore pulsante della galassia, poiché le stelle sono gli agenti principali della trasformazione del gas in elementi più pesanti rispetto a idrogeno, elio e litio. A seguito dell’evoluzione stellare, si forma anche la polvere interstellare, composta principalmente da particelle solide di silicati e carbonio.

Immagini multiple di un lontano quasar in questa immagine composita di Nasa Chandra X-ray Observatory e telescopio spaziale Hubble.
Crediti: Nasa/ Cxc/ University of Michigan/R.C. Reis et al/ STScI

Parallelamente all’accrescimento del gas sulla galassia, una parte di esso viene catturata dal buco nero supermassiccio che risiede al suo centro. Questo materiale che cade nel buco nero genera una grande quantità di energia sotto forma di radiazione elettromagnetica, dando origine ai primi quasar. Questi potenti oggetti cosmici emettono enormi quantità di energia, influenzando l’ambiente circostante e regolando molti processi galattici.

È interessante anche che, nonostante il breve intervallo di tempo trascorso dal big bang all’epoca in cui osserviamo il quasar Pōniuāʻena, la quantità di polvere misurata, pari a 2×108 masse solari, sia già notevolmente massiccia. Le particelle di polvere sono componenti cruciali delle dense nubi molecolari in cui formano le stelle. Queste particelle assorbono e diffondono la luce, e man mano che le stelle si formano all’interno di queste regioni polverose, si riscaldano ed emettono radiazione infrarossa. Osservando l’emissione infrarossa dalle regioni polverose, gli astrofisici sono in grado di dedurre la presenza di stelle appena formate anche quando sono pesantemente oscurate nella luce visibile. Oltre a essere il prodotto dell’evoluzione stellare, la temperatura della polvere presente in una galassia è legata al tasso di formazione stellare in corso, quindi misurare l’emissione infrarossa del pulviscolo cosmico fornisce un indicatore affidabile dell’attività di formazione stellare all’interno delle galassie. Nel caso del nostro quasar, il tasso di formazione stellare è pari a circa 100 masse solari per anno, circa cento volte superiore a quello che attualmente avviene nella nostra galassia Via Lattea.

L’inizio di un’era

Solo grazie alla straordinaria sensibilità recentemente raggiunta da Noema è stato possibile scoprire la presenza di CO nel quasar Pōniuāʻena. Nessuna traccia di gas freddo era stata precedentemente identificata nei restanti due quasar conosciuti a simili distanze. Da questo punto di vista, i risultati delle osservazioni hanno superato ogni aspettativa. Questa nuova capacità strumentale di Noema apre la strada alla scoperta di gas molecolare freddo a epoche ancora più remote. Tali osservazioni non solo ci permetteranno di approfondire la comprensione della chimica primordiale, ma anche di indagare la produzione di elementi pesanti nelle prime fasi dell’universo, offrendoci un prezioso sguardo su un’epoca cruciale della nostra storia cosmica.