Agile: l’avventura del satellite Made in Italy

Agile: l’avventura del satellite Made in Italy

Marco Tavani. Astrofisico, già Presidente Inaf

Si è conclusa il 14 febbraio scorso con il rientro e la disintegrazione in atmosfera, dopo 17 anni di ininterrotta attività scientifica, l’avventura del telescopio spaziale Agile, raro esempio di satellite per l’astrofisica interamente Made in Italy. Realizzato dall’Agenzia spaziale italiana con il supporto dell’Istituto nazionale di astrofisica, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, di università e industrie italiane, e lanciato dalla base spaziale indiana di Sriharikota il 23 aprile 2007, AGILE ha portato a risultati scientifici di prim’ordine nel campo dell’astrofisica delle alte energie, come per esempio la prima conferma osservativa dell’accelerazione nei resti di supernove dei protoni che compongono i raggi cosmici. Ne parliamo con il suo principal investigator, l’astrofisico Marco Tavani, già Presidente dell’Inaf.

Quando le è venuta l’idea di realizzare Agile?

«La call for ideas dell’Asi per una piccola missione scientifica su satellite – era la prima volta che l’Italia faceva una cosa del genere – è del maggio 1997. Lo concepimmo alla lavagna alla fine dell’estate. Era una proposta di quattro o cinque pagine – la conservo ancora. Ne arrivarono in tutto circa 60, e alla fine ne rimasero due. Una era una missione per le telecomunicazioni, che però non venne mai realizzata. L’altra era Agile».

MADE IN ITALY
Agile è stato realizzato dall’Asi con il supporto dell’Inaf, dell’Infn, di università e industria con Ohb Italia, Thales alenia space, Rheinmetall e Telespazio. Crediti: Inaf

Quando se ne parlava di solito si sottolineava che era un satellite piccolo. “Il piccolo Agile”, si diceva. In realtà non era così piccino…

«Era piccolo rispetto alle missioni da miliardi di dollari, ma non era piccolo in assoluto, pesava circa 340 kg. E ha dato filo da torcere a satelliti ben più grandi. Sul suo terreno, quello della rapidità della risposta nell’individuare eventi transienti, è stato davvero fortissimo».

Dovendo sceglierne uno soltanto, qual è stato il risultato scientifico più memorabile?

«Sicuramente i flare gamma dalla nebulosa del Granchio, una scoperta del tutto inaspettata. A quell’epoca Agile già non poteva più puntare una sola zona del cielo, per quanto ampia (ricordo che il suo campo di vista era pazzesco, quasi un quinto dell’intero cielo): a causa di un problema con una ruota d’inerzia sorto circa due anni dopo il lancio, abbiamo dovuto rinunciare al cosiddetto pointing mode e adottare una strategia osservativa a spinning, a rotazione continua. Arrivando così a coprire anche zone che magari non avremmo considerato. Una di queste era proprio la regione della Crab Nebula, per anni considerata la sorgente di riferimento dell’astrofisica delle alte energie a flusso stabile. Infatti, con Agile l’avevamo puntata più volte, soprattutto nei primi mesi dopo il lancio, usandola per la calibrazione in raggi gamma. E già allora, in realtà, avevamo notato un comportamento molto strano».

Cioè?

«Una settimana nell’estate del 2007 di flusso gamma più alto del normale. A quell’epoca non sapevamo se ciò fosse dovuto a un problema dello strumento o se fosse proprio un’emissione anomala; comunque decidemmo di tenerlo per noi, ripromettendoci di stare all’erta. Quando nel settembre del 2010 il fenomeno si è ripresentato, ormai lo strumento lo conoscevamo troppo bene per pensare che potesse essere un errore: non era un artefatto, era un fenomeno fisico reale, un processo di accelerazione completamente nuovo, molto rapido, che ha aperto un campo di indagine estremamente importante, anche dal punto di vista teorico, che unisce astrofisica delle alte energie e fisica dei plasmi relativistici. Abbiamo così potuto annunciare al mondo che la Crab Nebula, la candela standard per misure X e gamma, in realtà era soggetta a instabilità: una vera bomba, per la comunità scientifica delle alte energie».

Quale fu, invece, la fase più critica della missione?

«Forse quella che precedette il lancio, quando emerse un problema con alcuni chip che erano stati inseriti dagli Stati Uniti in una lista – il cosiddetto ITAR, International Trade of Arms Regulations – di componenti critiche per possibili sfruttamenti militari. Chip che avevamo usato anche a bordo di Agile. Il fatto è che inizialmente il problema non si poneva: Agile doveva essere lanciato con un vettore americano, il famoso Pegasus, un razzo che viene portato in volo da un aereo e poi sganciato quando è in quota. Poi però c’è stato l’11 settembre, il costo di un lancio con Pegasus è praticamente triplicato ed è andato al di là della portata del nostro budget, che era molto contenuto».

READY TO LAUNCH
Il satellite Agile posizionato sulla cima del vettore indiano Pslv alla base di Sriharikota, nell’Andhra Pradesh dell’India, in vista del lancio. Crediti: Inaf

Quant’era, il budget?

«Attorno ai 30-40 milioni di euro, lancio incluso. Alla fine arrivammo a circa 50 milioni, una cifra anche all’epoca molto bassa, per una missione spaziale. Fatto sta che siamo dovuti andare alla ricerca di un nuovo vettore, e abbiamo trovato un razzo indiano eccezionale, quello che poi avrebbe inserito Agile nell’orbita giusta e al posto giusto. Però avevamo sottostimato questo aspetto dell’Itar. Così, quando abbiamo fatto la richiesta per esportare per qualche settimana il satellite in India per il lancio, a causa di quei chip ci siamo ritrovati in una situazione di stallo. “Che succede se dovessimo riaprire il satellite e cambiare i pezzi?”, ci aveva chiesto all’ambasciata italiana a Washington il funzionario del Dipartimento di Stato Usa. “Di certo il programma subirà un ritardo, ma se dobbiamo farlo lo facciamo: riapriamo, sostituiamo, richiudiamo”, risposi, “and we are going to launch it anyway!”».

Lo lanceremo comunque… come andò a finire?

«Eravamo convinti che, essendoci mostrati così determinati, alla fine non ci avrebbero detto di no. Ovviamente ci hanno detto di no. Ci è toccato riaprire il satellite. Per estrarre le schede e sostituire questi chip abbiamo addirittura dovuto tagliare alcuni pezzi. Ci sono voluti mesi in più. Da allora ci raccomandiamo sempre con tutti i nostri colleghi europei di stare molto attenti all’Itar. Ma l’abbiamo lanciato».