Ecco le galassie che hanno reionizzato l’universo

Ecco le galassie che hanno reionizzato l’universo

(di Sara Mascia e Laura Pentericci)

Grazie al telescopio spaziale James Webb e all’aiuto dell’ammasso di Pandora che, come una lente, ha amplificato la luce proveniente dalle galassie ancora più distanti, per la prima volta è stato possibile stimare la frazione di luce da esse rilasciata in grado di ionizzare l’universo. 

LA VERSIONE DI WEBB Visto con la fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb, l’ammasso di Pandora risplende di 50mila fonti di luce. Crediti: Nasa/Esa/Csa, I. Labbe, R. Bezanson

Il lancio del James Webb Space Telescope (Jwst), il telescopio spaziale sviluppato dalla Nasa in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Europea (Esa) e l’Agenzia Spaziale Canadese (Csa), ha suscitato un crescente interesse riguardo al fenomeno della reionizzazione cosmica. Ma di cosa si tratta di preciso? E quali sorgenti astronomiche ne sono le principali responsabili? Per provare a rispondere a queste domande abbiamo bisogno di fare un passo indietro, e analizzare in dettaglio la storia dell’universo così come la conosciamo.

Il nostro viaggio inizia circa 400 milioni di anni* dopo il Big Bang, dopo un periodo chiamato Età Oscura, definita così perché con un po’ di fantasia dovremmo riuscire a immaginare l’universo come un luogo scuro, caldo e inospitale, senza oggetti luminosi e avvolto da una coltre di idrogeno neutro. Col passare del tempo, l’universo continua a espandersi, ed espandendosi si raffredda sempre di più. Quando in astronomia parliamo di zone che vanno incontro a processi di raffreddamento, nella maggior parte dei casi parliamo anche di zone di formazione stellare: e infatti eccole, le prime stelle (che a oggi definiamo di Popolazione III) che cominciano a illuminare l’universo e la cui nascita dà inizio all’epoca della reionizzazione. 

Il continuo di Lyman

Nonostante siano proprio queste stelle ad aver reso l’universo così come lo conosciamo, noi ancora non le abbiamo mai osservate: questo perché le stelle primordiali erano molto diverse dalle stelle come il Sole. Costituite solamente da idrogeno ed elio, erano infatti molto più massive e bruciavano velocemente il loro carburante, emettendo una quantità significativa di radiazione ultravioletta. Questa radiazione, nota come radiazione di continuo di Lyman, ha esattamente l’energia richiesta per trasformare l’idrogeno nel mezzo intergalattico dal suo stato neutro (stato in cui si trovava durante l’Età Oscura) a quello ionizzato.

Per chiarire, i fotoni del continuo di Lyman sono i fotoni emessi dalle stelle a energie superiori al limite di Lyman. Fu infatti Theodore Lyman che, dal 1906 al 1914, osservò che l’idrogeno atomico assorbe la luce solo a frequenze specifiche (le frequenze caratteristiche della serie di Lyman, tutte nella banda dell’ultravioletto). Tuttavia, questo comportamento quantizzato si verifica solo fino a un limite di energia, noto come energia di ionizzazione. Nel caso dell’idrogeno atomico neutro, l’energia minima di ionizzazione è pari al limite di Lyman, dove il fotone ha un’energia sufficiente a ionizzare completamente l’atomo, dando origine a un protone e a un elettrone liberi. Al di sopra di questa energia, tutte le frequenze della luce possono essere assorbite. Questo forma un continuum nello spettro energetico – il continuo di Lyman, appunto – piuttosto che le molte righe che si vedono alle energie più basse. Il limite di Lyman è alla lunghezza d’onda di 91,2 nanometri, corrispondente alla frequenza di 3,29 milioni di GHz ed energia pari a 13,6 elettronvolt.

Alla scoperta della reionizzazione

Il telescopio spaziale James Webb ha fotografato due degli oggetti celesti più lontani mai visti dall’uomo: due galassie risalenti a 350 e 450 milioni di anni dopo il big bang, avvenuto 13,8 miliardi di anni fa. Crediti: Nasa/Esa/Csa, Tommaso Treu

Proviamo ora a immaginare l’universo come la tela di un ragno: nelle intersezioni dei fili ci sono gruppi di stelle di Popolazione III che, per effetto della gravità, assieme alla materia a loro circostante formano le prime galassie. Gli spazi vuoti sono invece le zone che definiscono il mezzo intergalattico, al momento popolate da idrogeno neutro. Le prime galassie producono una radiazione di continuo di Lyman così intensa da iniziare a ionizzare l’idrogeno neutro contenuto nel mezzo intergalattico più vicino a loro. Progressivamente, la frazione di mezzo intergalattico che riescono a ionizzare aumenta, fino a che, dopo circa 1 miliardo di anni dopo il Big Bang, quasi tutto il gas risulta ionizzato. Così finisce questo nostro viaggio nella storia dell’universo e così finisce l’epoca della reionizzazione.

Per quanto il processo così raccontato sembri chiaro, a oggi sono ancora tanti gli interrogativi che gli astronomi si pongono su questo periodo: non sappiamo infatti quali siano le caratteristiche delle galassie che hanno contribuito maggiormente a reionizzare il mezzo intergalattico nei primi stadi di questo processo, né quale percentuale di radiazione con energia sufficiente a ionizzare il gas circostante sia fuoriuscita dai diversi tipi di galassie presenti all’epoca. Le galassie responsabili della reionizzazione erano massicce e luminose oppure, come ritenuto dai principali modelli attuali, erano quelle più deboli, che erano anche più numerose? 

Jwst: la vedetta dello spazio

Il telescopio spaziale James Webb ha fotografato due degli oggetti celesti più lontani mai visti dall’uomo: due galassie risalenti a 350 e 450 milioni di anni dopo il big bang, avvenuto 13,8 miliardi di anni fa. Crediti: Nasa/Esa/Csa, Tommaso Treu

Ecco dove Jwst entra in gioco con il suo potenziale rivoluzionario. Questo telescopio, lanciato con successo il 25 dicembre 2021 dallo spazioporto di Arianespace a Kourou, nella Guiana francese, con il suo specchio primario rivestito d’oro e dal diametro di 6,5 metri, è progettato per scrutare l’universo nell’infrarosso rivelando dettagli che i suoi predecessori, l’Hubble Space Telescope e lo Spitzer Space Telescope, non avrebbero mai potuto cogliere. 

Con la sua elevata sensibilità, Jwst è infatti in grado di rivelare galassie sempre più distanti nel tempo e nello spazio, consentendo agli astronomi di mappare la loro distribuzione spaziale e caratterizzare le loro proprietà fisiche. Inoltre, le sue osservazioni consentono di ottenere informazioni preziose sulla composizione di queste prime sorgenti, che potrebbero potenzialmente aiutarci a rivelare la presenza delle stelle di Popolazione III. 

Tra i primi programmi osservativi di Jwst, il progetto Glass-Jwst guidato da Tommaso Treu (Ucla) ha come obiettivo quello di utilizzare il nuovo telescopio per cercare risposta ai quesiti ancora aperti sulla reionizzazione cosmica. Si tratta di una collaborazione internazionale di ricercatrici e ricercatori in 24 istituti di ricerca e università tra Italia, Stati Uniti, Giappone, Danimarca, Australia, Cina e Slovenia che, in sinergia, hanno pubblicato un articolo a guida Inaf sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Siamo stati in grado di osservare galassie molto lontane e molto deboli sfruttando il fatto che esse si trovano al di là dell’ammasso di galassie Abell 2744 (chiamato anche Ammasso di Pandora). L’effetto di lente gravitazionale dato dall’ammasso, infatti, ha amplificato (e distorto) la luce proveniente da esse.

Le lenti gravitazionali

In astronomia, una lente gravitazionale è una distribuzione di materia – una galassia, materia oscura, un buco nero o, come in questo caso, un ammasso di galassie – in grado di curvare la traiettoria della luce proveniente da una o più sorgenti poste dietro la lente stessa, in modo analogo a una lente ottica. Ovviamente, non sono i fotoni a essere curvati bensì lo spaziotempo su cui viaggiano, piegato dalla gravità prodotta dai corpi celesti. Le prime evidenze sperimentali di questo affascinante fenomeno furono raccolte nel 1919 durante un’eclissi totale di Sole, quando si osservò la deflessione dei raggi luminosi delle stelle prodotta dal Sole stesso. Da allora, è stato scoperto un grande numero di lenti gravitazionali grazie agli sviluppi tecnologici della strumentazione astronomica. L’ammasso di Pandora, oggetto dello studio trattato in questo approfondimento, è una di queste.

Nuove osservazioni, nuove scoperte

LA PROTOSTELLA NELLA NUBE OSCURA
Le espulsioni della stella all’interno della nube L1527 ripuliscono le cavità e i confini brillano di arancione e blu in questo scatto raccolto da James Webb negli infrarossi. Crediti: Nasa/Esa/Csa/STScI, J. DePasquale, A. Pagan, A.M. Koekemoer

Grazie quindi a uno degli effetti più suggestivi della relatività generale e al telescopio a oggi più potente mai realizzato, abbiamo potuto studiare, tramite osservazioni spettroscopiche e fotometriche, 29 galassie presenti quando l’universo aveva un’età compresa tra circa 650 milioni e 1,3 miliardi di anni. Prima di queste osservazioni, le proprietà ionizzanti di queste lontanissime galassie erano ignote, soprattutto per quanto riguarda le galassie di piccola massa, molto difficili da rivelare e quindi da analizzare. Un’ulteriore complicazione è data dal fatto che a distanze così elevate non è possibile osservare direttamente la radiazione di continuo di Lyman, e quindi capire quanti fotoni ionizzanti abbiano emesso le galassie che stiamo osservando. 

Grazie ai nuovi dati raccolti da Jwst e dopo una analisi accurata delle loro proprietà fisiche e un confronto con quelle delle galassie dell’universo locale che sappiamo essere grandi produttrici di fotoni ionizzanti, siamo riusciti a stimare quanti fotoni ionizzanti fuoriescono dalle galassie di piccola massa. I nostri risultati indicano che oltre l’80 per cento delle galassie osservate contribuisce in maniera significativa alla reionizzazione, in accordo con quanto previsto dai modelli attuali. 

Nuove osservazioni, che saranno realizzate prossimamente anch’esse con Jwst, estenderanno questa analisi a campioni più grandi di galassie, includendo quelle con masse più elevate o ancora più distanti e ci permetteranno finalmente di capire un capitolo importante della storia dell’universo, e quindi della storia umana.

 

 

* [Edit: nella versione cartacea è rimasto indicato “400mila milioni di anni dopo il Big Bang”, dove “mila” è chiaramente un refuso]