(di Riccardo Spinelli, Francesco Borsa e Giancarlo Ghirlanda)
Nella definizione di abitabilità planetaria rientra la presenza di acqua allo stato liquido, come condizione necessaria per lo sviluppo di un ecosistema vivente. Ma è sufficiente? Sembra di no. La radiazione ultravioletta è uno dei fattori chiave per innescare alcuni processi che portano alla formazione dei mattoni fondamentali della vita.
La scoperta di sistemi planetari fuori dal Sistema solare ha fatto riaffiorare l’interesse per alcune domande che l’essere umano, istintivamente, si pone da sempre: siamo soli? siamo speciali? esistono altre forme di vita nell’universo?
La ricerca esoplanetaria studia per definizione gli altri sistemi planetari, ma può rispondere anche ad alcune domande su di noi. Studiando gli altri sistemi planetari, ad esempio, potremo capire quanto la struttura del Sistema solare sia comune nell’universo. Allo stesso modo, la ricerca di vita fuori dall’atmosfera terrestre potrebbe in futuro fornire alcuni indizi utili a capire quali condizioni siano davvero indispensabili per la vita (come la conosciamo noi) e anche come la vita si sia originata sulla Terra.
Pianeti potenzialmente abitabili
Il più grande limite della ricerca di vita extraterrestre è il fatto che l’unica vita che conosciamo è quella intorno a noi. Non sappiamo se è l’unica possibile, non sappiamo come si è originata, non sappiamo come sono avvenuti alcuni suoi fondamentali passaggi evolutivi. Nonostante ciò, una delle strategie adottate dai programmi di ricerca esoplanetaria e astrobiologica è identificare le condizioni che appaiono indispensabili per lo sviluppo della vita sulla Terra e concentrare gli sforzi osservativi in quelle regioni fuori dal Sistema solare dove possono esistere tali condizioni. Queste condizioni sembrano essere essenzialmente tre: la presenza di alcuni elementi chimici (carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, fosforo e zolfo), che sono i mattoni fondamentali degli esseri viventi intorno a noi; una sorgente di energia stabile e duratura che consente agli esseri viventi di portare a termine alcune reazioni fondamentali per la loro esistenza; la presenza di un solvente, come l’acqua liquida, dove le reazioni chimiche necessarie per la vita possano avvenire rapidamente. La condizione più stringente tra queste tre sembra essere l’ultima.
Difatti, l’universo è popolato da numerosissime fonti di energia (le stelle) e anche gli elementi chimici necessari alla vita sulla Terra sembrano essere molto diffusi (tanto che diverse molecole organiche sono state osservate anche nel mezzo interstellare). Questi requisiti ci suggeriscono, quindi, che il luogo più probabile dove trovare contemporaneamente queste tre condizioni è una regione a forma di anello attorno alle stelle, dove l’irraggiamento della stella consente a un pianeta roccioso di avere una temperatura né troppo calda né troppo fredda, adatta alla presenza di acqua liquida sulla sua superficie. Questa regione è stata denominata “zona abitabile circumstellare”, e un pianeta che si trova in questa zona può sperimentare queste condizioni, anche se ciò non significa che le sperimenti davvero e soprattutto non significa che sia abitato. A oggi sono stati scoperti circa una sessantina di pianeti rocciosi orbitanti nella zona abitabile delle loro stelle. Per ragioni osservative, la maggior parte di essi è stata scoperta attorno alle nane rosse, stelle più piccole (massa minore di 0,45 masse solari) e più fredde del Sole (temperatura inferiore a 3700K contro i 5800K), ma che rappresentano circa il 75% delle stelle della Galassia. Ovviamente queste stelle, essendo fredde, hanno una zona abitabile molto vicina alla loro stella (circa il 10% della distanza Terra-Sole), con il risultato che i pianeti in zona abitabile orbitano attorno a queste stelle con un periodo orbitale anche minore di 20 giorni.
Non tutte le stelle sono uguali
Tutte le stelle hanno una zona abitabile intorno e quindi è lecito chiedersi se esistano stelle più adatte di altre per la vita. Una stella è un sistema che emette energia sotto forma di radiazione finché non si esauriscono le reazioni nucleari al suo interno. Che tipo di energia emette (ovvero con quale intensità e a quale frequenza di radiazione) e per quanto tempo sono i due elementi fondamentali che determinano quanto una stella è adatta ad ospitare la vita. Il tempo di fornitura stabile di energia dipende dalla massa della stella. Una stella massiccia per non collassare sotto l’effetto dell’alta gravità deve bruciare carburante in modo veloce; deve, in altre parole, emettere tanta radiazione, e riesce a farlo per poco tempo. Una stella di 4 masse solari, ad esempio, rimane stabile per circa 300 milioni di anni, e questo potrebbe non consentire alla vita il tempo necessario per originarsi ed evolversi. Al contrario le nane rosse, con masse minori di 0,45 masse solari, possono bruciare carburante in modo lento, offrendo alla possibile vita attorno a loro un tempo potenzialmente molto lungo: ad esempio una nana rossa che ha un terzo della massa del Sole potrà offrire un tempo ai pianeti in zona abitabile di circa 160 miliardi di anni, 16 volte il tempo che offre il Sole alla Terra. Ma, come accennato prima, non conta solo il tempo, conta anche che tipo di energia emette la stella.
Zona UV abitabile
L’emissione ultravioletta, ad esempio, può essere un fattore determinante nel definire l’abitabilità di un pianeta. Molti studi hanno evidenziato che un’alta dose di radiazione ultravioletta può essere dannosa per la vita, perché può erodere l’atmosfera di un pianeta abitabile e può distruggere molte biomolecole. D’altra parte, anche se non abbiamo una teoria condivisa sull’origine della vita sulla Terra, abbiamo alcuni indizi che suggeriscono che la radiazione ultravioletta (in particolare quella definita vicino-ultravioletta, compresa tra 200 e 280 nanometri) possa avere un ruolo fondamentale per creare alcuni mattoni indispensabili per la vita. Uno di questi mattoni, l’acido ribonucleico (Rna) è considerato secondo la teoria del “Mondo a Rrn”, la prima macromolecola in grado di immagazzinare l’informazione e autoreplicarsi e dal quale poi tutta la vita intorno a noi si è evoluta. Sappiamo, ad esempio, che la radiazione ultravioletta era la sorgente di energia libera più abbondante sulla Terra primordiale e in aggiunta osserviamo che l’Rna mostra una resistenza alla luce ultravioletta maggiore di altre macromolecole con simili proprietà. Questo potrebbe suggerire che l’Rna sia una molecola emersa ed evoluta in un ambiente con alto irraggiamento ultravioletto. Infine, numerosi esperimenti dimostrano che alcuni composti chimici sottoposti a radiazione ultravioletta producono efficientemente zuccheri, lipidi, amminoacidi e nucleotidi, tutte molecole fondamentali per la vita che conosciamo noi.
In un esperimento condotto nel 2018, Paul Rimmer, astrochimico dell’Università di Cambridge, e John Sutherland, biochimico dell’Mrc Laboratory of Molecular Biology di Cambridge, hanno dimostrato che in un composto di ioni di acido cianidrico e di acido solfidrico in acqua, esposto a luce vicino-ultravioletta, vengono generati alcuni importanti precursori dell’Rna. Lo stesso esperimento condotto dal medesimo gruppo, non genera questi precursori in assenza di lampade ultraviolette. Tutto questo ci suggerisce che probabilmente esiste una dose di radiazione ultravioletta massima tollerabile per le macromolecole fondamentali per la vita e una dose minima necessaria per la loro formazione. Quanta radiazione ultravioletta investe un pianeta attorno a una stella dipende da quanta radiazione emette la stella e dalla distanza a cui il pianeta orbita. Ciò permette di definire una zona attorno alle stelle dove un pianeta può sperimentare delle condizioni adatte all’origine e alla persistenza della vita come la conosciamo noi. In questa zona un pianeta riceve abbastanza radiazione Uv per innescare la sintesi dei mattoni fondamentali della vita, ma non troppa da distruggerli. Un team di ricercatori Inaf ha definito questa fascia “zona Uv abitabile” e ha investigato se gli esopianeti scoperti che orbitano nella zona abitabile (e quindi hanno speranza di avere acqua liquida sulla loro superficie), orbitano anche nella zona Uv abitabile. L’indagine è stata condotta analizzando le osservazioni di un campione di 17 stelle che ospitano 23 pianeti in zona abitabile tramite l’Ultraviolet and Optical Telescope (Uvot), uno dei tre strumenti a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory, osservatorio spaziale della Nasa con una importante partecipazione italiana dell’Asi e dell’Inaf. Dai dati raccolti è stato dedotto che le nane rosse nel campione in esame emettono troppa poca radiazione vicino-ultravioletta per innescare l’origine della vita secondo la chimica proposta da Rimmer e Sutherland, mentre le stelle più calde riescono a fornire ai pianeti orbitanti nella zona abitabile una radiazione ultravioletta sufficiente a innescare i processi per la formazione dei mattoni fondamentali per la vita senza distruggerli. Le nane rosse rappresentano il 75% delle stelle della Galassia e le loro proprietà facilitano l’osservazione dei pianeti in zona abitabile. L’analisi del gruppo di ricercatori dell’Inaf sembra suggerire dunque che la maggior parte delle stelle nella Galassia ha poca possibilità di innescare la formazione dei composti fondamentali per la vita nella loro zona abitabile secondo la chimica di Rimmer e Sutherland. Tuttavia, ulteriori osservazioni sono necessarie per confermare o smentire questo scenario, in quanto le nane rosse potrebbero innescare tali processi attraverso brillamenti in banda ultravioletta oppure durante le prime fasi di vita della stella, quando l’emissione Uv delle stelle è maggiore. L’estensione del campione in esame, formato finora solo da stelle vecchie con età maggiore di 3 miliardi di anni, sta fornendo risultati promettenti suggerendo che per le nane rosse più calde la zona abitabile e la zona Uv abitabile potrebbero intersecarsi durante il primo miliardo di anni dell’evoluzione del sistema planetario, in una regione con radiazione Uv sufficiente per innescare la formazione dell’Rna in presenza di acqua liquida superficiale. Se confermato, questo risultato suggerirebbe che le condizioni per la formazione di vita come la conosciamo possano essere presenti attorno alla maggior parte delle stelle della Galassia, anche se in momenti diversi della loro evoluzione.
Ricerca di vita
Uno dei principali obiettivi dello studio delle atmosfere esoplanetarie è la ricerca di biomarcatori, cioè molecole che possono essere associate alla presenza di vita. In questo contesto, Andes, uno spettrografo ad alta risoluzione a guida dell’Inaf destinato all’Extremely Large Telescope (Elt), si pone tra gli obiettivi principali quello di rilevare segni di vita su pianeti simili alla Terra. Nei prossimi decenni la scoperta di vita in sistemi diversi dalla Terra potrebbe darci indicazioni sulle reali condizioni imprescindibili per la vita e anche sull’origine della vita sulla Terra. La caratterizzazione degli ambienti esoplanetari risulta cruciale per capire in quali condizioni la vita può emergere e prosperare. A tal proposito sarà rilevante la sinergia tra i telescopi dedicati all’osservazione delle atmosfere planetarie (come ad esempio Jwst e il futuro telescopio dell’Esa Ariel) e quelli dedicati allo studio dell’emissione stellare ultravioletta (come il futuro Cubesat Nasa Mantis, con partecipazione dell’Inaf). L’eventuale scoperta di vita in ambienti molto diversi da quelli sperimentati sulla Terra cambierebbe drasticamente le condizioni che ci appaiono imprescindibili per la sua esistenza. Ad esempio, la scoperta di vita su pianeti abitabili attorno a stelle molto fredde, che non riuscirebbero a fornire la radiazione ultravioletta necessaria per l’origine della vita secondo la chimica proposta da Rimmer e Sutherland, potrebbe farci rigettare l’ipotesi che la luce ultravioletta sia fondamentale per la formazione della vita. In qualche modo, i sistemi esoplanetari potrebbero rappresentare in un lontano futuro anche dei laboratori per studiare la vita come la conosciamo, indicandoci le condizioni che ne hanno permesso l’origine anche sulla Terra.