L’astronomia può essere sostenibile?

L’astronomia può essere sostenibile?

Cercare risposte tra i corpi celesti può inquinare. Ecco allora che anche ricercatori e istituti sono chiamati a ridurre le proprie emissioni per preservare il benessere della Terra.

Il cantiere dell’Extremely Large Telescope sulla cima del Cerro Armazones, nel deserto cileno di Atacama. Crediti: G. Hüdepohl/ESO

Un astronomo europeo produce circa tre volte le emissioni di un cittadino medio. È questa la conclusione di uno studio pubblicato su Nature il 21 marzo 2022 che voleva rispondere alla domanda: qual è l’impatto delle infrastrutture associate alla ricerca astronomica in termini di emissioni?

Una domanda che si sono posti in molti, non solo nel mondo della ricerca. Fra gli astronomi, negli ultimi anni è nato il movimento Astronomers for Planet Earth, che conta più di 1200 aderenti provenienti da 69 paesi e ben tre premi Nobel. Lo scopo principale è creare una coscienza collettiva del problema e far conoscere le teorie che stanno dietro al cambiamento climatico. Il primo messaggio che si vuol diffondere è: non possiamo contare su un “pianeta B”. Il secondo, che si legge chiaramente in questo studio, è: dobbiamo partire da “noi”.

«C’erano già state varie iniziative di altri gruppi per stimare le emissioni di gas a effetto serra dovute ad alcuni aspetti del nostro lavoro come i viaggi e l’uso dei calcolatori. Tuttavia, a parte alcune eccezioni sporadiche, esistevano pochissime informazioni sulle emissioni dovute alla costruzione e alle operazioni dei grandi telescopi e osservatori» racconta a Universi Luigi Tibaldo, ricercatore dell’Istituto di astrofisica e planetologia (Irap) dell’università di Tolosa sul quale è stata condotta l’indagine. «L’obiettivo del nostro studio è stato quello di fornire una prima stima globale delle emissioni di gas a effetto serra dovute alle infrastrutture di ricerca in astronomia. Con i miei colleghi abbiamo deciso di valutare nella maniera più completa possibile l’impatto del nostro istituto, così da permetterci di identificare la strategia più efficace per ridurlo».

Per l’Irap, la costruzione e la gestione dei telescopi spaziali e terrestri di cui i ricercatori utilizzano i dati sono responsabili del 55% delle emissioni. La seconda voce a pesare sul bilancio (per il 18%) è l’acquisto di materiale e servizi. E poiché questi acquisti hanno come scopo principale lo sviluppo di nuovi strumenti, la prima conclusione è che sono proprio gli strumenti scientifici la sorgente primaria di emissioni. Al terzo posto (16%) troviamo i viaggi per raggiungere gli osservatori e per partecipare a riunioni e conferenze. L’infrastruttura locale (riscaldamento, consumo di elettricità, rifiuti), invece, genera poco più del 10% delle emissioni. Quest’ultimo dato, dipende dal fatto che l’Irap si serve principalmente di energia a basse emissioni (elettricità nucleare e legno rinnovabile per il riscaldamento). È importante ricordarsi che questi numeri potrebbero cambiare anche di molto in altri contesti e istituti. In una stima analoga condotta al Max Planck di Heidelberg, ad esempio, è risultato che le emissioni legate all’uso dei supercalcolatori normalizzate al numero di ricercatori sono venti volte più abbondanti rispetto a Irap.

«Gli accordi di Parigi richiedono di ridurre drasticamente le emissioni di gas a effetto serra, e per l’Europa parliamo di un fattore circa cinque rispetto alle emissioni attuali» continua Tibaldo. «Non è chiaro di quanto esattamente noi astronomi abbiamo bisogno di ridurre le emissioni perché gli obiettivi dell’accordo sono globali e non si applicano a settori specifici. Tuttavia, poiché attualmente le nostre attività di ricerca producono emissioni molto più abbondanti della media della popolazione, è chiaro che una riduzione è necessaria. Speriamo che i nostri risultati abbiano due effetti principali. Il primo, convincere gli organismi che costruiscono e gestiscono osservatori e telescopi (e le infrastrutture di ricerca) a fare delle stime più precise, complete e sistematiche dell’impatto ambientale e a rendere questi dati pubblici. Il secondo, persuadere tutta la comunità scientifica a riflettere su come svolgere il proprio ruolo nella società senza compromettere il futuro delle prossime generazioni e dell’ecosistema terrestre».

E a essere convinto che sia importante interessarsi alla questione, ora, c’è anche l’Inaf. «Inaf-Green, il Gruppo Riqualificazione ecologica ed energetica, si è formato proprio per stabilire rapidamente strategie di miglioramento dell’efficienza energetica degli istituti e dei siti osservativi Inaf», dice Richard Laurence Smart, ricercatore dell’Inaf di Torino che fa parte del gruppo. «Abbiamo come primo obiettivo la riduzione delle emissioni e intendiamo promuovere e implementare iniziative di sostenibilità. Si tratta di un gruppo di lavoro recente ma sono sicuro che faremo un buon lavoro, perché i ricercatori sensibili all’argomento e pronti a impegnarsi non mancano».